domenica 19 febbraio 2017

Con "Parlami" Matteo Rampin ci aiuta a mettere in pratica come ascoltare

“Molti parlano, pochi lasciano parlare, quasi nessuno ascolta. Eppure, quando ci accade di essere ascoltati per davvero, viviamo un’esperienza che può segnarci in profondità e innescare cambiamenti reali e duraturi nella nostra vita. Un ascolto vero è fatto di silenzio, musicalità, attesa, rapidità, autocontrollo, intuito, curiosità, audacia, prudenza, forza, docilità, raziocinio, familiarità con l’assurdo e di molti altri ingredienti contrastanti”.
Questo è uno dei passaggi che mi ha più incuriosito di “Parlami”, il libro, di Matteo Rampin, che sta avendo un notevole successo di vendite in libreria.
Psichiatra, psicoterapeuta e formatore, Matteo Rampin da vent’anni studia e applica tecniche di derivazione ipnotica per conseguire l’eccellenza nelle prestazioni sportive, artistiche e professionali. È consulente personale di atleti, manager e artisti di livello internazionale, e ha lavorato per decine di aziende private ed enti pubblici negli ambiti del cambiamento, dell’innovazione e delle procedure non convenzionali
di soluzione dei problemi. Su questi argomenti ha scritto una trentina di libri pubblicati in Italia e all’estero.
Perché ha sentito l’esigenza di far conoscere le difficoltà del comunicare?
 “Ho scritto "Parlami" pensando a quanti, per ragioni professionali, hanno a che fare con persone che attraversano difficoltà di vario ordine. Oggi il tema della comunicazione è trattato ovunque, ma non sempre si dà la dovuta attenzione alla fase dell'ascolto, senza la quale non c'è comunicazione autentica”.
Lei afferma che una gran parte delle persone, parlano, ma pochi lasciano parlare, quasi nessuno ascolta. Come siamo arrivati a questo punto?
“Molti ascoltano solo se stessi: per questo, anche quando credono di ascoltare, in realtà non lo fanno. Altri ascoltano l'interlocutore solo fintantoché parla di loro. In generale, ascoltare seriamente è faticoso, e pochi accettano la fatica come un ingrediente normale della vita".
Ascoltare, non va più di moda?
 “Direi che molti vogliono essere ascoltati, senza rendersi conto che per essere ascoltati ci deve essere qualcuno che ascolta. È una variazione sul tema "individualismo": esisto solo io, tu esisti solo in funzione dei miei interessi. Per ascoltare occorre tenere a bada l'ego, cosa alla quale non si viene più educati e formati con la dedizione che era propria altri periodi storici".
Rossano Scaccini
©Riproduzione riservata.


mercoledì 8 febbraio 2017

L'uomo di casa raccontato da Romano De Marco è un thriller avvincente

Al suo settimo romanzo, da poco arrivato in libreria, Romano De Marco sbarca con “L’uomo di casa" in America.
Sandra Morrison è una donna realizzata. Vive serena il suo ruolo di moglie e di madre, abita in un esclusivo quartiere residenziale, alle porte di Washington DC, ha un lavoro importante che le permette di occuparsi degli altri. La sua vita scorre su binari che sembrano puntare dritti verso una felicità solida e duratura. Fino al giorno in cui Alan Sandford, suo marito, viene ritrovato morto in uno squallido parcheggio. È seduto nella sua auto, con la gola tagliata e i pantaloni calati fino al ginocchio. La polizia non ha dubbi: un classico caso di omicidio a scopo di rapina, forse perpetrato da una prostituta tossica in crisi di astinenza. Per Sandra, è l’inizio di un incubo. E la situazione peggiora quando scopre che, a sua insaputa, Alan stava indagando su un caso di cronaca nera, rimasto insoluto tre decenni prima: il rapimento e l’uccisione di sette bambini a Richhmond, Virginia. Chi era la persona con cui ha vissuto per vent’anni? Un perfetto uomo di casa, marito felice e padre amorevole? O uno sconosciuto doppiogiochista, un frequentatore di prostitute ossessionato dall’enigma della Lilith di Richmond? Cosa lo legava a quella vecchia storia di omicidi? E perché le aveva tenuto nascosto quel suo morboso interesse? Sandra proverà a dare una risposta a questa e a molte altre domande, con l’aiuto delle sue amiche e del suo avvocato. Ma soprattutto del suo nuovo vicino, John Kelly, un giovane scrittore dal quale si sente irresistibilmente attratta. Scoprirà, suo malgrado, che nel quartiere di Bobbyber Drive, troppe cose sono diverse da come appaiono a prima vista. E, soprattutto, che il filo di sangue che lega l’omicidio di suo marito a quelli di tanti anni fa, non si è ancora spezzato. C’è ancora un assassino in giro, e la prossima vittima potrebbe essere proprio lei.
Romano De Marco, 51 anni, responsabile della sicurezza di un grande gruppo bancario, divorziato, padre di Lorenzo sedici anni e Sara dodici, appassionato di lettura, cinema, serie TV, fumetti e tante altre cose.
Lei perché scrive?
“Per passione e per essere letto dal maggior numero di persone possibile, perché questo è il vero scopo di tutti noi che scriviamo: essere amati e apprezzati dai nostri lettori”.
Come si passa dal pensare alla sicurezza di una banca al raccontare storie perfette di cronaca nera?
“In realtà non mi ispiro mai ad eventi realmente accaduti, anche se spesso mi è capitato che la cronaca nera riportasse la notizia di crimini molto simili a quelli che avevo immaginato nei miei romanzi. È accaduto anche con “L’uomo di casa”. Il rapimento e uccisione dei neonati rinvenuti nella villetta di Richmond in Virginia, evento che apre il romanzo, mi pareva il crimine più odioso e terribile che potessi inventare. Purtroppo nell’autunno del 2015, quando la prima bozza del manoscritto era già completata, in Baviera, nel sud della Germania, accadde qualcosa di molto simile. Ho dovuto constatare, ancora una volta, che quando si tratta di crimini ed efferatezze, la realtà umana riesce sempre a superare la fantasia. Riguardo al mio lavoro di esperto della sicurezza, mi ha aiutato più volte nello scrivere. Soprattutto nei miei romanzi ambientati a Milano, dove spesso descrivo rapine e collusione fra la malavita e il mondo dell’alta finanza”.
Ingannare: come si riconosce una persona che è solita farlo?
“Magari lo sapessi! Potrei brevettare un metodo per la difesa dai bugiardi e diventerei miliardario! Purtroppo, oggi, con la rilevanza che i social e la comunicazione globale hanno assunto nella nostra vita di tutti i giorni, è abbastanza usuale che ciascuno di noi porti avanti tre vite. Una pubblica, una privata e una segreta”.
Perché “L’uomo di casa” l’ha ambientato in America?
“Volevo decisamente creare discontinuità con i miei precedenti sei romanzi tutti ambientati in Italia. E poi volevo raccontare una America che conosco molto bene, che frequento ogni anno e che mi affascina moltissimo. In più, essendo questo il mio primo thriller “puro”, l’ambientazione americana era d’obbligo, essendo tutti americani i miei punti di riferimento del genere. Sto parlando di John Sandford, Robert Crais, Michael Connelly, Patricia Cornwell, Thomas Harris e molti altri”.
Rossano Scaccini
Foto gentilmente concesse da Romano De Marco
©Riproduzione riservata

sabato 4 febbraio 2017

Torto marcio - Alessandro Robecchi ha ragione di sicuro


A chi mi conosce, non sto per rivelare niente di nuovo. Sono un fedelissimo telespettatore di Maurizio Crozza. Non mi perdo nessuna sua apparizione televisiva e neanche le sue performance teatrali.
La bravura del comico ligure, è anche merito di un grande autore, Alessandro Robecchi, che oltre è tante attività lavorative di  successo è arrivato in libreria con “Torto marcio”.  
Milano, quasi centro, eppure periferia, «più di seimila appartamenti, famiglie, inquilini legali barricati in casa, abusivi, occupanti regolari, occupanti selvaggi», vecchi poveri, giovani poveri, italiani poveri, immigrati poveri, criminali poveri. Uno di quei posti incredibili, eppure reali, ormai senza rappresentanza politica, dove i piccoli stratagemmi di un welfare fai-da-te sono questione di sopravvivenza. Posti di cui l’informazione parla solo quando si tratta di sicurezza, o razzismo.
A pochi chilometri da lì, in una via socialmente distante anni luce, un sessantenne imprenditore molto ricco e dalla vita irreprensibile viene freddato con due colpi di pistola. Una vecchia pistola. E sul corpo, un sasso. Ma «il morto non era uno che di solito muore così». E non sarà l’unica vittima.
Per fronteggiare «il ritorno del terrorismo», il ministero manda un drappello di esperti burocrati. Ma la vera squadra d’indagine è clandestina, creata per lavorare sotto traccia e lontano dal clamore mediatico: sono Ghezzi e Carella due poliziotti diversissimi tra di loro, ma entrambi fedeli più alla verità che all’immagine o alle convenienze. E non sono i soli a indagare su un caso in cui, dall’affascinante vedova agli intrecci d’affari, dalla legge alla giustizia, nulla è ciò che sembra. Carlo Monterossi, l’autore di un affermato programma tivù spazzatura, inciampa per avventura nel «caso dei sassi» mentre si trova a dover recuperare, insieme all’amico detective Oscar Falcone, un preziosissimo anello rubato.
Tre storie destinate a incontrarsi in un intreccio dall’ordito perfetto, che resta fino alla fine coperto dal mistero. Questo nuovo giallo di Alessandro Robecchi costruisce la plastica realtà dei personaggi attraverso il fitto incrociarsi dei dialoghi, e fonda il suo umorismo amaro sulla sistemazione scenica oltre che sulla battuta. Mentre la storia – nera, drammatica – si addentra in tutti i contrasti di Milano, dal luccicante studio televisivo, all’appartamento superlusso, giù fino ai luoghi del disagio e dell’emarginazione quotidiana.
E si capisce che il suo scopo è proprio questo: far riflettere sulla nostra società attraverso il poliziesco. Sulla finta – forse impossibile – giustizia, sui colpevoli e gli innocenti, sul buco nero che può inghiottire libertà e dignità.
Alessandro Robecchi come si presenterebbe ai lettori di questoblog?
“Direi che il mio mestiere è scrivere. Faccio il giornalista da molti anni (quest’anno sono 35, pazzesco, ho lavorato per molti giornali, da giovano come critico musicale, poi scrivendo a lungo di politica e società. Ho lavorato per la radio e per la televisione (anche oggi sono autore). Prima di passare alla narrativa ho scritto qualche libro, poi, nel 2014, con Sellerio, ho cominciato la serie dei noir di Carlo Monterossi. Questo sarebbe una specie di curriculum, diciamo. In realtà ora mi interessa più di tutto l’attività letteraria, ma ritengo sempre che scrivere sia un mestiere che si impara e si affina, e tendo a non fare distinzioni tra quello che si scrive. Ogni opera ha una sua specificità, ovviamente, se si scrive per un romanzo o per la tivù le cose sono diversissime, ma resta il legame con la parola scritta, che io considero preziosissimo.
 Ma lei come pensa che sarà la televisione generalista del futuro, anche quello più immediato?
“Dovrà andare incontro ai desideri di pubblici molto diversi e continuerà a vivere (a cercare di vivere) di grandi numeri… Naturalmente può avere un suo carattere, una sua specificità stilistica, ma non può permettersi il lusso di essere settoriale, per cui non credo subirà grandi modificazioni a breve”.
Carlo Monterossi, il personaggio principale del romanzo, quanto le assomiglia?
“Pochissimo, nel senso che non c’è nulla di autobiografico. L’aver scelto come protagonista un autore televisivo rispondeva a due esigenze. La prima: scrivere un noir il cui protagonista fosse in qualche modo una persona normale, cioè non un inquirente, un comissario, un carabiniere. L’idea di mettere una persona ordinaria (anche se il Monterossi non è proprio ordinario…), di fronte a fatti gravi, delitti, omicidi, mi sembrava una sfida in più. Poi, specie nel primo libro (ma molto anche in quest’ultimo) la televisione, il suo cinismo, alcuni personaggi che le girano intorno, beh, sono un argomento che conosco e che trobvo poco raccontato in generale… Come ogni personaggio di una serie, poi, Monterossi cambia e si modifica, ma il carattere e la personalità sono piuttosto ben delineati… no, direi che mi somiglia poco, proprio poco, anche se ovviamente sono convinto che qualcosa di nostro c’è sempre, qualunque cosa scriviamo”.
Rossano Scaccini
Foto gentilmente concesse da Alessandro Robecchi

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