sabato 31 luglio 2010

Alessandro Petacchi e la sua gioia di pedalare










“Sono un grande appassionato di ciclismo che, sfruttando buone doti fisiche e impegnandosi al massimo, riesce a lanciare la sua bicicletta a velocità molto alte. A differenza di altri velocisti, però, mi manca forse quel tocco di follia che serve per essere spregiudicato negli sprint”.
Ho chiesto al neo vincitore della maglia verde al Tour de France, Alessandro Petacchi, di trovare un modo di presentarsi ad un pubblico nuovo, magari a dei ragazzi che l’hanno visto in televisione scattare e vincere una volata al Giro transalpino.
Andiamo avanti con le presentazioni, chi è Alessandro Petacchi fuori dall’ambiente ciclistico?
“Una persona che ama la tranquillità. Trascorrere del tempo con mia moglie e mio figlio, accudire i numerosi animali che vivono in quello che si può definire un piccolo zoo domestico, andare a pescare con gli amici: queste sono le cose che amo fare quando non sono in bicicletta”.
Quando ha iniziato a prendere seriamente l’andare in bicicletta?
“Ho iniziato a praticare ciclismo relativamente tardi, avevo 12 anni. Mi ero cimentato nel nuoto e nell’atletica ma, quando ho provato a correre in bici, ho capito che era lo sport che mi dava maggiori soddisfazioni. La passione per il ciclismo mi è stata trasmessa da mio padre, guardavamo assieme tutte le corse che venivano trasmesse in televisione e così, quando ho capito che avrei potuto imitare i campioni che ammiravo, non ho più mollato la bicicletta”.
Come è scandita una sua giornata?
“Se sono a casa, mi sveglio non troppo tardi, dedico un po’ di tempo al mio bimbo e a mia moglie, dopo colazione mi preparo per uscire in allenamento. La pedalata può durare dalle due alle sei ore e più, dipende da quale tipo di lavoro di preparazione sto svolgendo. Quindi rientro, mangio un pranzo solitamente composto da pasta in bianco e carne, e nelle rimanenti ore del pomeriggio svolgo tutte le tipiche commissioni di una persona normale: lavori per la casa, bollette, spese e quant’altro. La sera, solitamente, non faccio mai tardi. Se invece mi trovo alle corse, la giornata è caratterizzata da ritmi pazzeschi scanditi da sveglia, colazione rinforzata, trasferimento alla partenza, preparazione pre-corsa, gara, protocollo post-gara, rientro in hotel, massaggi, cena”.
Ed una senza la bicicletta?
“In quei rari giorni nei quali la bicicletta non occupa gran parte delle 24 ore, cerco di dedicarmi il più possibile alla famiglia e ai miei amici. Niente di speciale, mi piace rallentare i ritmi frenetici delle giornate di corsa”.
Alessandro Petacchi che cosa ha imparato da questo sport?
“Che, quando si partecipa a una competizione, nessuno ti regala nulla: se vuoi ottenere qualcosa, devi impegnarti al massimo per raggiungerla. Per fortuna, il ciclismo mi ha anche insegnato che puoi contare comunque sul supporto dei tuoi compagni di squadra per centrare l’obiettivo che ti sei prefissato”.
Allenarsi per lei vuol dire?

“A me piace molto andare in bici, quindi gli allenamenti sono momenti graditi nei quali posso provare il piacere di pedalare. La fatica dell’allenamento è per me salutare, è una conferma che il fisico si sta preparando e migliorando per essere pronto in vista degli appuntamenti agonistici”.
E gareggiare?
“Il ciclismo è fatto soprattutto di gare, quindi le competizioni sono la finalizzazione di tutto il lavoro di allenamento e preparazione e sono il mezzo attraverso le quali si può raggiungere la gratificazione sportiva. E’ bello per un ciclista mettersi alla prova contro altri corridori, la gara è un lungo romanzo con un finale tutto da scrivere: questa incertezza rappresenta un grande stimolo per dare sempre il meglio”.
La parola “volata” per Alessandro Petacchi vuol dire?
“L’epilogo più entusiasmante e incerto del romanzo della corsa al quale facevo prima riferimento. La scossa adrenalinica che si prova”.
E se le dico Salita lei che cosa mi dice?
“La salita è una sfida davvero faticosa per un velocista: bisogna impegnarsi per raggiungere la vetta, senza però spendere tutte le energie e rimanendo comunque concentrati sul tempo massimo previsto dalla corsa. Per fortuna, pur essendo uno sprinter, non ho mai avuto grandi problemi con le salite e col passare degli anni, sono sempre migliorato”.
Dal ritrovo di partenza lei che cosa riesce ad intuire?
“A dire il vero, ormai al raduno di partenza si riesce ad approfondire poco la condizione e gli umori del gruppo: questo accade perché quasi tutte le squadre giungono alla partenza su autobus attrezzati, nei quali ci si cambia e dai quali si scende solo pochi attimi prima della firma sul foglio di partenza. Certo, se c’è qualche corridore che proprio non sta bene, lo si nota già alla mattina al momento di schierarsi al via: questo capita soprattutto nei grandi giri”.
Quando ha indovinato in pieno quello che pensava dopo aver osservato i ciclisti nell’area del ritrovo di partenza?
“Nel Tour de France appena concluso, per esempio, qualche mattina mi sono soffermato a guardare il viso di Hushovd, mio rivale per la classifica a punti. Quando notavo che la sua faccia era tesa, poi in corsa effettivamente il norvegese non riusciva a essere brillante; al contrario, quando il suo viso era rilassato, era una vera impresa provare a seguirlo nelle volate per gli sprint intermedi”.
Capita di cadere, ma lei cosa consiglia ad un cicloturista per superare l’inconveniente, magari prenda come “cavia” uno di quelli alle prime armi?
“Le cadute fanno parte della bicicletta, sia a livello professionistico che a livello amatoriale. Ci sono persone più propense a finire per terra e altre meno: è questione di equilibrio e agilità. Certamente, chi impara a pedalare sin da piccolo, avrà più dimestichezza con la bici e sarà quindi più agile e meno esposto alle cadute. L’unico consiglio davvero utile è quello di rimanere sempre concentrati, non distrarsi, poiché le strade e il traffico automobilistico possono sempre presentare imprevisti”.
La vittoria che sapore ha per Alessandro Petacchi?
“E’ il premio massimo per un ciclista: è il culmine di un lungo lavoro che parte dal periodo invernale, passa attraverso allenamenti e sacrifici, si concretizza in gara mediante lo sforzo agonistico e il lavoro di squadra. La soddisfazione per la vittoria è quelle di un professionista che sa di aver dato ottima finalizzazione a un lavoro ben svolto”.
Le sarà capitato qualche volta, ma che cosa ha provato dopo aver deciso di abbandonare una gara?
“Ogni ritiro dalle gare è una sconfitta, accompagnata da una grande amarezza per quanto avresti voluto offrire e per quanto avresti potuto ottenere. Il tutto condito dal malessere fisico che ha portato al ritiro”.
Un aneddoto che non dimenticherà mai legato ai suoi tifosi?
“Ogni volta che trovi lungo la strada di una corsa un tuo tifoso speciale, di quelli con i quali intrattieni un rapporto stretto di amicizia, è un’occasione speciale, uno stimolo per impegnarsi ancora di più. I ricordi più belli legati ai tifosi sono quelli riguardanti le apparizioni di questi supporter in luoghi imprevisti: magari sei a correre in una località sperduta e ti appare una faccia nota in cima a una salita difficilmente raggiungibile. Pensi ai sacrifici compiuti da quell’appassionato per raggiungerti e supportarti in capo al mondo e ti senti immediatamente più vicino a casa, ti senti spinto da un grande affetto”.
Ad oggi quale è la gara più bella che ha corso?
“La Milano-Sanremo che ho vinto nel 2005 è stata la mia corsa perfetta. Era la vittoria che sognavo fin da bambino e in quel giorno di 5 anni fa il sogno si è tramutato in realtà: un’emozione indescrivibile, alla quale si avvicinano i momenti in cui ho indossato la prima maglia rosa al Giro d’Italia e il recente podio di Parigi con la vestizione della maglia verde del Tour de France”.
Quella che ha deciso di non essere più al via?
“Non ci sono corse che evito a priori per motivi particolari. Certo, alcune gare non si adattano alle mie caratteristiche, ma non ho mai messo una croce definitiva su una particolare competizione”.
Che cosa farà dopo che smetterà di andare in bicicletta?
“Mi piacerebbe molto approfondire lo studio degli animali. Se non fossi diventato un ciclista professionista, mi sarebbe piaciuto studiare veterinaria, quindi non è escluso che possa intraprendere questa strada”.
Concludiamo lei ha una sua ricetta per migliorare il ciclismo?
“Bisogna prestare molta attenzione ai giovani, farli crescere in un ambiente ciclistico sano, che li invogli a pedalare in sella alla bicicletta. I giovani sono la risorsa fondamentale per il futuro del nostro sport”.
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Foto: gentilmente concesse dal Team Lampre-Farnese Vini.